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Regina Mundi, alle medie prof e studenti crescono perché si lasciano ferire

“Osservare, riconoscere, interrogare lasciandosi nel contempo interrogare: in una parola, lasciarsi ferire”. È racchiuso in questo triplice atteggiamento di apertura – verso i ragazzi, verso la realtà, verso la conoscenza – il segreto di quello che Chiara M. Rossetti, da settembre 2021 coordinatrice didattica della scuola secondaria di primo grado, chiama “il metodo Regina Mundi”.

Perché alla fotografia, piena più di grigi che di colori, scattata dalla Fondazione Agnelli sullo stato di salute della scuola media italiana non ci si può arrendere né rassegnare: una possibilità di fare scuola diversa, più avvincente per i professori e per gli studenti, c’è. E si gioca su un aspetto cruciale, il coinvolgimento: affrontando ogni materia così, “che cosa scopro di nuovo in me e per me che prima non sapevo? Che cosa c’entra questo testo, questo problema, questo dato con la mia vita?”. Un metodo che porta i suoi frutti (e non solo nella secondaria inferiore): la “Regina Mundi” di Milano, infatti, considerando tutti e cinque i livelli di istruzione (nido, infanzia, primaria, secondaria di primo grado, licei linguistico e scientifico) oggi conta più di mille studenti e 700 famiglie.

La Fondazione Agnelli ha fatto un ritratto impietoso dello stato attuale della secondaria inferiore. Cosa significa per lei, oggi, fare scuola media?

Se in tanti ambiti si delinea un quadro della scuola media sconfortante e preoccupante – i ragazzi imparano sempre meno, il disagio sociale dilaga inesorabile… –, è per me chiaro che oggi fare scuola richiede una disponibilità, non tanto all’ascolto, all’accoglienza, all’aiuto, aspetti indubbiamente fondamentali e di per sé naturali, ma a un primo passo imprescindibile e decisivo.

Quale?

La disponibilità a lasciarsi ferire, perché io insegnante posso essere carico di buone intenzioni, ma non posso evitare un primo momento di vertigine in cui mi faccio interrogare dal ragazzo che ho di fronte, mi metto in discussione. È questa consapevolezza che, per forza di cose, trasforma il mio fare scuola, suggerendo a me e agli altri insegnanti modalità sempre nuove di fare didattica.

Lasciarsi ferire e lasciarsi interrogare: si può dire che insegnare è soprattutto una questione di cuore, di passione, di coinvolgimento?

Mi vengono in mente gli ultimi versi della poesia “Corno inglese” di Eugenio Montale: Il vento che nasce e che muore / nell’ora che lenta s’annera / suonasse te pure stasera / scordato strumento, cuore. Il poeta, dopo aver fatto i conti con l’incessante spettacolo della natura, in cui il vento come un musicista fa vibrare alberi, onde del mare e luce del tramonto, arriva a desiderare che pure il suo cuore possa essere chiamato in causa e che possa suonare, “strumento scordato”. È interessante notare come il cuore sia definito “strumento” da ridestare, come ultimo passaggio necessario. Diventa inevitabile chiamarlo in causa quando ciò che vedo, ciò che ascolto, ciò che vivo è davvero mio.

La disponibilità a lasciarsi ferire è quindi alla base di quello che potremmo chiamare il “metodo Regina Mundi”?

Assolutamente sì. Se metodo significa, etimologicamente, strada attraverso la quale si raggiunge un approdo, è chiaro che il metodo, pur caratterizzandosi di tinte diverse, specifiche, per ogni materia, è una sola strada segnata da tre passaggi: osservare; riconoscere il dato che si ha davanti; interrogarlo e lasciarsi interrogare, ovvero lasciarsi ferire.

In concreto?

Osservare significa leggere attentamente un testo, analizzare un problema, cogliere i dati durante un esperimento. Riconoscere ciò che ho di fronte vuol dire capire di cosa si tratta, e qui entrano in gioco gli strumenti specifici di ciascuna disciplina perché, grazie a quelli, posso classificare, identificare. Ultimo passaggio, interrogare ciò che ho di fronte e lasciarmi interrogare: in altre parole paragonarlo con me. Che cosa scopro di nuovo in me e per me che prima non sapevo? Che cosa c’entra questo testo, questo problema, questo dato con la mia vita?

Aprirsi alla conoscenza non significa aprirsi a un’infinità di informazioni, di nozioni, di ricette. Ma accorgersi che ogni aspetto che incontro può essere interessante, perché io ne faccio parte. O posso decidere di farne parte. Non c’è apertura alla conoscenza senza coinvolgimento.

Può citare un esempio?

Sulla prima pagina del quaderno di lingua straniera, il primo giorno di scuola gli insegnanti fanno trascrivere ai ragazzi una citazione della scrittrice russa Ljudmila Ulickaja, tratta dalla raccolta Daniel’ Stajn, translatorI am certain that / any new language / widens man’s knowledge. / It is like having one eye and one ear more (“Sono certo che conoscere una nuova lingua permette di ampliare la conoscenza. È come avere un occhio in più e un orecchio in più”).

Accompagnandoli subito a gustare la convenienza del metodo: solo assaporando una convenienza, con rischio e con iniziativa, si segue qualcuno. Ecco perché da noi un insegnante è esposto a 360 gradi: non propone un lavoro, ma sé al lavoro. E i segni della convenienza sono scritti sul suo volto, lo si vede dalla letizia con cui entra in classe.

Anche gli insegnanti sono dunque chiamati a un lavoro, a un lavoro da portare avanti insieme?

Un insegnante impara ogni giorno dallo sguardo del collega che lavora al suo fianco. Prenda il lavoro del Consiglio di classe: è un passaggio istituzionale nella vita della scuola, ma diventa il momento in cui tra insegnanti ci si guarda in faccia e ci si aiuta a guardare i ragazzi. A partire da questo confronto prende vita la proposta didattica.

Perché?

Se io, insegnante di Lettere, so che un mio alunno, che fa fatica in italiano, ha un talento manuale che lo porta a tirar fuori il meglio di sé, questo deve essere ipotesi con cui da quel giorno lo guardo scrivere. Abbiamo bisogno di uno sguardo che sia unitario. Spesso infatti, parlando di un ragazzo, ci domandiamo: “Chi di noi lo ha agganciato? “Chi è punto di riferimento per noi adulti per poterlo guardare in tutto il suo valore?”. Da qui nasce una condivisione tale da avvertire l’esigenza naturale di programmare insieme un lavoro interdisciplinare che possa tirare fuori il meglio da ciascun ragazzo.

L’orientamento è un altro aspetto per lei molto importante. Come viene coltivato nella sua scuola?

Alla “Regina Mundi” di orientamento non si parla quando mancano tre mesi alla scelta della scuola superiore. Fin dal primo giorno di prima media i ragazzi sono subito accompagnati a orientarsi, a cercare l’Oriente, il punto dove sorge il sole, cioè il punto dove ciascuno scopre sempre di più se stesso. È un guardarsi in azione, instancabilmente, è un prendere le misure rispetto a un desiderio nato magari per un barlume di corrispondenza.

Chi li può accompagnare in questa scoperta?

Fondamentale è la figura del maestro, un adulto che sappia suscitare in loro quel potenziale di cui non sono ancora consapevoli. Alle medie i ragazzi sempre più cercano uno “sportello” cui rivolgersi che sia altro dalla famiglia. Non perché questa non abbia più valore, anzi, resta insostituibile, ma alla famiglia è chiesto di cambiare la forma della sua presenza.

Che frutti porta questa attenzione all’orientamento?

Una consapevolezza di quelle che sono le risorse personali e gli strumenti per poter affrontare ciò che si ha davanti. Scatta infatti una dinamica avvincente: nel momento in cui un ragazzo s’imbatte in una disciplina che è nelle sue corde, può scoprire che il metodo di quella materia diventa possesso per sempre, una ventata di aria fresca utile anche per le altre materie.

Prima accennava al fatto che alle famiglie è chiesto di cambiare forma nell’accompagnare il figlio, una sorta di passo indietro. Che tipo di rapporto s’instaura tra la vostra scuola e i genitori?

In un’età così delicata per i ragazzi, le famiglie sono chiamate a una presenza discreta, che non vuol dire affatto defilata. Noi non finiremo mai di ribadire quanto sia importante e decisiva l’alleanza scuola-famiglia, conditio sine qua non perché tutto quello che ho raccontato fin qui possa davvero realizzarsi. Non si educa da soli e non bastano gli insegnanti: occorre che i ragazzi avvertano quel filo diretto tra ciò che respirano a scuola e quello che respirano a casa, se non altro come fiducia e stima nei confronti della scuola. Per iniziare un cammino insieme occorre una stima reciproca.

Perché vale la pena oggi educare e andare a scuola?

Mi soffermerei proprio sull’espressione “valere la pena”. Educare, andare fisicamente a scuola, imparare, implica effettivamente una pena perché comporta una fatica, un dolore, una ferita. Ma è solo partendo da questa ferita, da questa pena che si diventa più se stessi: alunni, professori, genitori. Uno schermo di internet non ferirà mai, un’informazione standardizzata trovata su tutte le enciclopedie digitali non può ferire. Non c’è nessuna pena. Andare a scuola, imbattersi nella contraddizione, che inevitabilmente prima o poi arriva in una relazione, permette un cammino che, per quanto arduo e non sempre diritto, è un cammino di crescita.

(Marco Biscella)

 – int. Chiara Rossetti

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